Vittorino

Autore del Libro delle Cenge

Si usa molto oggi la figura retorica dell'allegoria dell'esistenza umana come una salita ad una montagna: la scalata, lunga difficile, pericolosa, non scevra di momenti drammatici o felici, che ha per scopo la meta ultima, la morte, il raggiungimento della vetta. Ho chiesto a Vittorino Mason quale metafora per lui rappresentasse la cengia, e chi meglio di lui lo può dire visto che è uscito in libreria la sua guida Il Libro delle cenge, 56 vie orizzontali nelle Dolomiti, Editrice Panorama. Il Libro delle Cenge è un buon prodotto editoriale ma nel complesso i contenuti superano di gran lunga il contenitore, sul quale non mi dilungo dicendo soltanto che il progetto grafico è fresco e godibile. Riguardo allo stile di scrittura Mason ci ha abituato ai voli emozionali che apparentemente intralciano le relazioni ma queste vivono anche di quelli.

Tornando al quesito iniziale, Mason dice che la cengia rappresenta per lui l'orizzonte, qualcosa di non definito e definitivo come la vetta/morte, un andare verso nuove scoperte, quasi che dietro ogni spigolo e oltre ogni canalone la via/vita continuasse ancora e ancora. C'è in questa considerazione messa a confronto con il tropo ascensione/esistenza una sorta di serenità, di accettazione del divenire, senza l'affanno della riuscita e delle problematiche esistenziali. La cengia, ci fa capire Mason, è la bellezza, il gusto di vivere, vedere, scoprire; con semplicità; la cengia è dunque meditazione, preghiera.

Andar per cenge è niente altro che escursionismo, e neanche si tratta di quell'escursionismo nobile che qualcuno equipara all'alpinismo poiché non ha nelle sue finalità il raggiungimento della vetta. E' il camminare dell'espediente, cioè l'adattarsi alle opportunità che l'ambiente offre; la cengia permette di passare dove altrimenti è impossibile senza l'utilizzo di sofisticate procedure di progressione. Cammino dell'espediente anche perché il temine deriva dal latino expedire cioè liberare; liberare il passaggio tra una valle e l'altra, liberare dai vincoli imposti da pareti impossibili da superare, semplicemente liberare il cammino che tramite la cengia può proseguire oltre, verso un ipotetico infinito.

Lo sfruttamento della risorsa cengia, dell'espediente, è tipico del camoscio e dello stambecco e dunque del cacciatore. La cengia, ovunque, è una conoscenza prima di tutto dei montanari, che la frequentano ancor prima delle vette; anzi le vette un tempo erano fatica inutile per i montanari: nessun motivo per salirle. La cengia permette un contatto diretto, quindi, non solo con la montagna fisica, ma sopratutto con il mondo della montagna vissuto dai suoi abitanti, mondo che è in via di sparizione per i decorsi storici economici e sociali. La cengia dunque come strumento archeologico di disvelamento del vissuto delle popolazioni locali.

La cengia è anche l'unico altro modo, oltre all'ascensione di una parete, di essere dentro la montagna, non sopra o su un fianco, ma proprio dentro, tra le rughe e i bastioni, tra canaloni e colatoi, pareti e pinnacoli; luoghi dove si ha la consapevolezza del mondo grande che ci circonda e inghiotte, mastodontico e solenne. La scalata di una parete comporta l'uso di tecniche di assicurazione che rendono l'attività piuttosto artificiale, quasi una forzatura. Niente di tutto questo nelle cenge che appaiono dunque un modo di vivere la montagna naturale e puro: scusate se è poco in tempi di ricerca di una identità alpinistica che pare disciolta in mille rivoli di definizioni e proposte, che abbisogna di un ritorno alle cose semplici, di essere mondata dagli inganni del marketing, di ritornare disciplina rispettosa dell'uomo e dell'ambiente.